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Immagine del redattoreTre passi per Firenze

I pettini liturgici eburnei

Nel Medioevo i pettini non erano solo strumenti di igiene personale, ma ad essi spettava anche il compito di rivestire un ruolo chiave nei rituali religiosi.  La parola “rito” non è riferita solo all’insieme di cerimonie, bensì esso comprende anche i gesti, i formulari, gli usi liturgici e la lingua adottata dal celebrante.

Le origini della liturgia d’Occidente vengono collocate nel IV secolo d.C. e, fin dagli antichi rituali del Pontificato Romano, era prassi usare il pettine per la consacrazione dei Vescovi. Il rito di pettinarsi era spesso preceduto da una preghiera che accompagnava il gesto ed una delle testimonianze più antiche era collocata nella rubrica del pontificale di Parigi del XIII secolo, sul quale era trascritto: «Episcopus vel sacerdos, minarum solemnia celebraturus, dum se pectinat dicat: intus ceteriusque caput nostrum totumque corpus et mentem meam tuus». Le parole alludevano al chiaro utilizzo del pettine nel rito, sottolineando che la sua funzione era quella di sgrassare e ripulire ciò che era ritenuto rozzo ed impuro, riordinando appunto i capelli. L’atto di sgrassare era unito al fatto che al religioso veniva unta la testa con l’olio, comprensiva di tutti i capelli, poi gli veniva asciugata con la mollica di pane ed infine pettinata. Queste operazioni erano condotte dal diacono che, dopo aver fatto sedere il sacerdote, con i sandali già indossati, gli cingeva al collo l’amitto, cioè un panno di lino bianco, per poi procedere con la sistemazione dei suoi capelli con l’apposito accessorio eburneo. Nardi, nella sua opera Lettera sull'uso degli specchi e pettini d'adornamento presso le antiche cristiane, afferma che il pettine non era solo usato durante la consacrazione vescovile, bensì era prassi comune per il sacerdote e/o vescovi pettinarsi (anche senza l’aiuto di nessuno) prima di giungere all’altare, così da sistemarsi i capelli per rendersi decenti e composti agli occhi del popolo. La conferma di questa tesi era data dalla presenza di alcuni specchi all’interno di sagrestie, come nel caso di alcuni esemplari molto grandi rinvenuti sia in Francia che in Spagna che permettevano al sacerdote di vedere il suo riflesso e rimediare ad eventuali macchie in volto, alla scompostezza dei suoi capelli o per vedere se l’abito fosse in ordine prima della celebrazione liturgica. Una importante testimonianza era fornita da Onorio Augustodunense nella sua Gemma animae, opera datata al XII secolo, nella quale era trascritto che l’atto di pettinarsi era uno dei gesti preparatori del sacerdote prima di iniziare la messa: «Il sacerdote che si prepara a celebrare la messa, ossia a combattere la guerra spirituale per la Chiesa, deve rivestire le armi spirituali, che lo proteggano da ogni lato contro i nemici più furibondi tra i vizi». In aggiunta, secondo lo storico Moroni, vi sono delle fonti che confermano che anche l’ordine dei Cappuccini svolgeva la pratica di pettinarsi i capelli, che avveniva prima di lavarsi le mani e di giungere sull’altare. L’uso del pettine era annoverato anche nella routine quotidiana dai monaci che lo usavano per la loro pulizia personale, mentre la regola vallombrosana sanciva che i religiosi potevano adoperarlo all’alba, dopo le laudi. Con il passare dei secoli la pratica del pettinarsi non rientra più nelle abitudini dei riti religiosi, infatti al giorno d’oggi potremmo paragonare questo gesto al lavaggio delle mani.

Per quanto riguarda il materiale usato erano realizzati pettini in legno, osso, corno o zanna di tricheco; l’avorio però rimaneva la scelta primaria sia per la sua preziosità che per il suo significato allegorico. Infatti la predilezione per il materiale eburneo non era casuale poiché il suo candore biancastro era simbolo di purezza e la sua struttura era ritenuta incorruttibile, potente ed infrangibile. 

I pettini liturgici del Medioevo erano pressoché uguali a quelli profani nella forma, la differenza si basava nella decorazione incisa nella costola centrale di raccordo tra le due file di denti.  Infatti quelli destinati al clero riportavano decorazioni legate al mondo religioso, mentre quelle dei laici erano spesso ispirate a romanzi, gesti cortesi o conquiste d’amore.


Tra i pettini liturgici medievali più antichi si annovera quelli appartenenti alla produzione arabo-sicula fiorentina, databili al XII secolo, ed oggi visibili nella Sacrestia della Chiesa di Santa Trinita a Firenze, insieme ad altre reliquie ed oggetti personali di San Bernardo degli Uberti, abate dell’Ordine Vallombrosano dal 1085[1]. Con la definizione “arabo-sicula” si intendono dei manufatti che presentano caratteri stilistici affini principalmente legati alla decorazione pittorica di ambito islamico[2]. Infatti, la tendenza all’astrazione dei motivi ornamentali con la creazione di moduli ripetibili all’infinito era una nota caratteristica dell’arte islamica. Purtroppo l’universalità di schemi, modelli e stili aveva generato negli studiosi una inevitabile difficoltà di identificazione di scuole o aree precise. Si tratta di un numero relativamente piccolo di oggetti, circa trecento esemplari, quasi tutti provenienti dalla Sicilia, ed è composto soprattutto da cofanetti a sezione rettangolare con coperchio tronco-piramidale o piano, teche cilindriche, pastorali e alcuni pettini liturgici, tra cui quelli di Firenze che ho preso in esame. Non è possibile stabilire se i due pettini fiorentini fossero stati utilizzati per uso personale o liturgico, ma dovevano essere parte di un corredo prezioso perché furono più volte ricordati negli inventari delle monache di Faenza, in un codice manoscritto magliabechiano e nella Historia del Franchi (pubblicata nel 1640). Si tratta di due esemplari molto rari perché in area fiorentina non si conoscono ulteriori reperti similari con un chiaro stile arabo-siculo. L’iconografia presente sopra di essi può essere messa in relazione anche con altri manufatti come il reliquario di San Cassiano o il codice miniato di Girona. Il pettine fiorentino riporta la medesima decorazione iconografica di almeno altre due copie identiche, una proveniente dalla Cattedrale di Roda in Spagna ed uno esposto al Walter Arts Museum di Baltimora. Il fronte dei pettini è decorato da due pavoni iscritti entro cerchi, ai lati di un animale centrale, generalmente identificato come un ghepardo, ma lo studioso Cott aveva ipotizzato che nel pettine fiorentino potesse trattarsi di un cane per via del muso leggermente allungato. A decorare i lati dell’accessorio sono riprodotti dei motivi floreali a racemi intrecciati che si intersecano con delle foglie. La somiglianza decorativa dei pettini ha fatto presupporre l’ipotesi che potessero provenire tutti dalla stessa bottega. Nel caso del pettine americano sia i dettagli laterali che le code dei pavoni sono dipinti in marrone e presentano tutt’oggi tracce di doratura.

 


Pettine decorato con ghepardo (o cane?) e due pavoni, avorio, XII secolo, Sacrestia della Chiesa di Santa Trinita a Firenze.



Pettine decorato con ghepardo e due pavoni, avorio, XII secolo, 9.7 x 9.5 cm, The Walters Arts Museum di Baltimora


[1] 

S. Bernardo degli Uberti era diventato monaco nel 1085 e si era trasferito nel monastero di San Salvi. Alla sua morte molti furono gli oggetti personali che si trasformarono in vere e proprie reliquie, le quali furono affidate alle monache (soprannominate le “donne di Faenza”) dopo che i monaci avevano abbandonato S. Salvi. Uno dei più antichi inventari che attestano la presenza di questi oggetti nel monastero è datato 26 agosto 1534 e nell’elenco vengono menzionati un braccio del Santo, una mitria, il piviale, la pianeta, una croce in legno e due pettini di avorio. A causa della soppressione napoleonica (1808), anche le consorelle furono costrette ad abbandonare la sede per trasferirsi nel monastero dello Spirito Santo a San Giorgio sulla Costa. In quell’occasione le donne presero le reliquie che poi furono a loro volta sollecitate dai monaci di Santa Trinita per poterle esporre in un luogo consono alla venerazione.

[2] 

È stato identificato inizialmente un luogo di produzione in ambito persiano, ma a poco a poco si è affermata sempre di più una lavorazione nella Sicilia normanna. Una prima produzione era legata ai cofanetti, con la semplice unione di placchette di avorio, ma pian piano la lavorazione diventa sempre più complicata e difficile, infatti furono fabbricati anche ricci pastorali divisibili in tre diverse modalità di lavorazione: sicula, ispano-moresche’ e italo settentrionale. Si aggiunse poi un altro repertorio che vedeva una fusione tra la produzione omayyade con i cofanetti di ambito siciliano ed una produzione prettamente dell’area spagnola.




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